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Audizione presso la Commissione del Senato in data martedì 17 maggio nell’ambito dell’esame dei disegni di legge nn.2530 e connessi (Violenza domestica)

Dott. Giovanni B. Camerini

Buongiorno Presidente e grazie dell’invito. Come specialista in neuropsichiatria infantile ed in psichiatria ed esperto in psicologia giuridica, membro del Consiglio Direttivo della Società di Psicologia Giuridica e dell’Associazione Italiana Consulenti PsicoForensi, mi trovo spesso ad affrontare situazioni e problemi relazionali riconducibili alla violenza domestica.

Il ddl n. 2530 si occupa soprattutto delle misure da assumere, in funzione delle quali si pone in primo luogo il problema degli accertamenti necessari per riconoscerla ed, eventualmente, sanzionarla. Va innanzitutto precisato che nell’ambito domestico intrafamiliare si possono verificare diverse tipologie/categorie di violenza: c’è una violenza “diretta”, fisica/o psicologica, ed una “indiretta”, all’interno di vicende separative conflittuali, quando un genitore ostacola e/o impedisce l’accesso del figlio/della figlia all’altro allontanandolo e denigrandolo senza valide ragioni.

Tutte queste forme di violenza non sono necessariamente legate al genere, potendo quelle “dirette” essere agite anche da donne e quelle “indirette” esercitate anche da uomini. La violenza domestica non coincide con quella di genere. Si possono verificare diverse vittimizzazioni secondarie, spesso legate al protrarsi degli accertamenti ed alla mancata tempestività delle misure da assumere. Sussistono deficit strutturali nel nostro ordinamento che impediscono la necessaria celerità, deficit più volte posti in evidenza dalla CEDU.

Degli accertamenti in questione fa menzione la legge n. 206: il punto 23 b tratta le “misure di salvaguardia e protezione in caso di allegazioni di violenza domestica o di genere”. La presenza di “allegazioni”, ovvero di denunce, pone la questione della valutazione della loro fondatezza, secondo le garanzie previste dall’art. 24 della Costituzione. La legge prevede che di essa non possa occupare solo l’ambito penale (ai sensi soprattutto dell’art. 572 c.p.) ma anche il giudice civile, avvalendosi delle misure previste dall’art. 342 bis c.c. (“ordini di protezione contro gli abusi familiari”) coordinandosi anche con le autorità giudiziarie anche inquirenti. Ciò dovrebbe consentire l’abbreviazione dei termini processuali, anche allo scopo di evitare vittimizzazioni secondarie legate a violenze non riconosciute.

Tra le procedure da mettere in atto per gli accertamenti, si dovrebbe procedere con urgenza all’ascolto del minore da parte del Giudice onde meglio comprendere ed approfondire le cause dell’eventuale rifiuto del figlio verso un genitore e verificare se derivino da maltrattamenti subiti. Va tuttavia ribadito che il rifiuto del figlio potrebbe derivare anche da diverse tipologie di violenza domestica, per cui sussiste la necessità di operare precocemente una “diagnosi differenziale” a partire da un’attività istruttoria da parte dell’autorità giudiziaria.

Nella sentenza 6919/16 la Corte di Cassazione affermava che “ove un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini delle modifiche della modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità di detti comportamenti, utilizzando i mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, e a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita serena”. Si tratta dei casi spesso trattati dalla CEDU e che riguardano l’incapacità, da parte delle agenzie giudiziarie, di tutelare i rapporti minorenne-genitore non convivente ostacolati dal genitore con il quale il figlio prevalentemente convive. Lo Stato ha obblighi positivi di tutelare questa relazione.

Anche in queste situazioni, le misure dovranno essere tempestive, onde tutelare efficacemente i diritti relazionali in gioco. La CEDU ha più volte ammonito e sanzionato l’Italia per violazioni dell’art. 8 della Convenzione avendo giudicato le misure adottate “stereotipate ed automatiche” e poco tempestive, consentendosi così che l’allontanamento del figlio dal genitore si radicasse e si stabilizzasse. Sempre la legge 206 al punto 23 zz stabilisce che in presenza di allegazioni o segnalazioni di comportamenti di un genitore che ostacolino quanto prevede l’art. 337 ter c.c., ancora si renda necessaria un’abbreviazione dei termini processuali ed una concreta attuazione di provvedimenti nell’interesse del minore. Le sanzioni amministrative dovrebbero essere immediatamente efficaci, includendo una multa giornaliera per inadempienze a riguardo secondo gli artt. 709 ter e 614 bis c.p.c. al fine di garantire una tutela effettiva dei diritti umani lesi. Fatta salva, ovviamente, la possibilità di adire all’ambito penale, ai sensi degli artt. 388, 570, 572 e 574 c.p..

Si tratta, in definitiva, di evitare la vittimizzazione secondaria in merito a tutte le fattispecie di violenza domestica: sia del genitore che subisce maltrattamenti dall’altro e che, qualora le violenze intrafamiliari non vengano riconosciute, rischia di subire condizioni di affidamento penalizzanti per lui/lei e per i figli stressi; sia per il genitore che si trovi escluso dal figlio per opera dell’altro, e che corre il pericolo di una stabilizzazione/cronicizzazione di questo allontanamento. Si pone però un problema importante: questi accertamenti e queste attività istruttorie non possono essere delegate ai tecnici esperti, CTU o Servizi sociali, non rientrando in alcun modo nelle loro competenze e responsabilità. L’indagine psicologica è e deve rimanere estranea all’ambito fattuale. Così come non esistono “indicatori” psicologici e comportamentali di abuso sessuale, ed atteso che lo psicologo o il neuropsichiatra infantile non possono essere chiamati a valutare la veridicità delle
denunce a riguardo, così non esistono “indicatori” psicologici e comportamentali di violenza domestica la quale non può essere individuata e riconosciuta al di fuori dell’ambito giudiziario.

L’esperto si trova di fronte a “narrazioni” spesso simmetriche e non dispone di strumenti per valutarne l’attendibilità, né esistono segnali psicocomportamentali univocamente riconducibili ad una violenza agita o subita. Rammento che in due sentenze rese a Sezioni Unite (n. 3086/22 e 6500/22) si riporta il principio secondo il quale in materia di CTU l’accertamento dei fatti diversi da quelli principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni è fonte di nullità.
In questa prospettiva, risulta apprezzabile come nel punto 23 b della l. 206 si precisi come il CTU debba attenersi ai protocolli ed alle metodologie riconosciute dalla comunità scientifica senza effettuare valutazioni sui profili di personalità. Al centro della valutazione si pongono i best interests del figlio, non i giudizi astratti sulle personalità dei genitori. Non esistono profili-tipo del “padre violento” o della “madre malevola”, la cui individuazione riecheggia l’abusiva attribuzione di una “colpa d’autore” (cfr., a riguardo, l’ordinanza n. 13217/21 della Cassazione), né i fatti (ovvero i comportamenti concretamente agiti) possono essere acclarati attraverso ricognizioni psicologiche pseudoscientifiche.

Genera piuttosto qualche perplessità il fatto che la stessa legge preveda al punto 23 p che, ai sensi della Convenzione di Istambul, il mediatore familiare, in ragione di una specifica “formazione” in materia di tutela dei minori e di violenza domestica o contro le donne, abbia l’”obbligo” di interrompere la propria opera nel caso in cui emerga qualsiasi forma di violenza: non spetta certo al mediatore valutare il peso e la consistenza delle allegazioni in merito, ma al giudice. Tanto più, poi, che la mediazione si svolge sotto l’egida del consenso informato delle parti, senza rivestire alcun carattere di obbligatorietà.

Va ribadito che, ai sensi dell’art. 13 della Convenzione di Strasburgo, le pratiche ADR rappresentano, in primo luogo, un diritto del figlio minore, consentendogli di non essere coinvolto nei conflitti tra i genitori. Si profila il rischio che il proliferare delle reciproche denunce, non contenute da adeguati filtri, allontani o vanifichi la possibilità di una soluzione stragiudiziale dei conflitti stessi, a tutto svantaggio dei figli. Una giustizia viene percepita tanto più giusta quanto più viene operato un corretto bilanciamento tra i diritti relazionali in gioco, al di là degli stereotipi di genere.

aicpf convegno 17 giugno 2022 ascolto del minore raccolta testimoniale