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Convegno: Criticità e appropriatezza valutativa in ambito psicoforense

Palermo, 21-22.4.2023

Il Consiglio Direttivo ed il Comitato Scientifico della Associazione Italiana Consulenti Psico – Forensi, all’esito delle relazioni e del dibattito svoltosi in occasione della prima giornata del Convegno “Criticità e appropriatezza valutativa in ambito psicoforense”, dedicata ad una analisi dei contenuti d’interesse psico – forense attinenti all’ambito degli accertamenti peritali ed extra peritali in tema di Diritto di Famiglia, ravvisabili nella c.d. “Riforma Cartabia”, ritengono doveroso evidenziare quanto segue.

Nell’ambito del dettato normativo ed applicativo correlabile con la ben più ampia “Riforma Cartabia”, si esprimono una serie di indicazioni attinenti all’accertamento in sede civilistica (peritale, consulenziale e socio – assistenziale) della sussistenza di allegati fenomeni di violenza intrafamiliare.

Tale obiettivo introduce nel lavoro clinico, socio – assistenziale, e psico – forense, l’immagine di una sorta di “giudizio” preliminare, se non urgente, su fatti di potenziale interesse penale, il quale verrebbe attivato, o definito, non in base ai diritti ed alle garanzie offerti dalla Legge penale e dal vaglio degli inquirenti e di un Pubblico Ministero, ma in base alle deduzioni psicologiche o psico – sociali di soggetti investiti delle più disparate funzioni (docenti, operatori sociali, altri), o alle auto referenziate asserzioni della stessa parte interessata.

Quali operatori professionali quotidianamente impegnati in ambito diagnostico e valutativo, riteniamo che un dispositivo normativo così centrale ed importante in ambito giudiziario sia suscettibile di dibattito non solo in sede legislativa, ma anche dal punto di vista applicativo, contenendo – come inevitabile nel momento in cui si delineano innovazioni di tale portata – elementi che, nei casi concreti, possono portare a difficoltà se non a vere e proprie storture.

Riteniamo quindi legittimo proporre i seguenti contributi di riflessione:

La riforma Cartabia contiene numerosi riferimenti alle “allegazioni”, ovvero alle affermazioni, di violenza domestica e di genere. Va rilevato come un’allegazione rappresenti un costrutto processuale e non giuridico. Sussiste il problema della strumentalizzazione dell’allegazione di violenza che parte da una mancata (o talvolta negata) differenziazione del concetto di violenza, da quello di conflitto (caratterizzato da una simmetria relazionale, rispetto all’asimmetria delle azioni violente) e si traduce nella proposizione al Tribunale, in un unico contenitore emergenziale, di decine di dinamiche familiari in cui non sempre viene accertata la sussistenza di fenomeni di violenza, nonostante le comuni prospettazioni unilaterali di partenza. Le verifiche a tale riguardo non possono investire l’ambito della consulenza tecnica psicologica.

 

Il termine violenza di genere dovrebbe poi essere ridefinito in IPV (intimate partner violence) come la vasta letteratura scientifica internazionale ci suggerisce. La violenza intrafamiliare può riguardare tutti i componenti che compongono la famiglia e ciò va considerato, al di là delle statistiche.  Per cui, l’accezione di violenza può e deve essere gender free.

 

Com’è noto, le indagini psicologiche sono estranee alla determinazione dei fatti. Non possono quindi essere delegate al CTU, all’interno di una valutazione rivolta alle capacità genitoriali e alle relazioni familiari, attività “para – istruttorie” al fine di stabilire se si siano verificati episodi di violenza. Per lo psichiatra o lo psicologo, quali clinici, la ricerca della verità “dei fatti e le inferenze riguardanti i nessi causali sono suscettibili di relativismo interpretativo, coerentemente con il metodo e le teorie cui egli aderisce. Nel processo, per contro, la ricerca della verità” avviene nel contraddittorio, ossia nel confronto d’interessi e di punti di vista delle parti, a ciascuna delle quali deve essere garantita la partecipazione alle varie attività̀, comprese la ricerca, l’assunzione e la valutazione delle prove.

Queste garanzie non assistono, invece, l’attività “investigativa del CTU. Stando alla lettera delle norme procedurali vigenti, peraltro, la CTU dovrebbe limitarsi all’esame delle prove già” acquisite e non andare alla ricerca di altre, né assumerle, salvo ricorrano specifiche e restrittive previsioni giudiziarie. Si pone quindi un concreto dubbio circa l’opportunità di inserire nella valutazione civilistica elementi che di fatto esulerebbero sia dallo specifico quesito in tema di competenza genitoriale, sia dalle consolidate e sacre prassi centrate sul contraddittorio e sui diritti propri della vicenda penale.

 

L’art. 473 bis.26 del decreto legislativo 10.10.22 n. 149 prevede la nomina di un professionista operante come ausiliario del giudice su richiesta delle parti, individuato all’interno dell’albo dei CTU o al di fuori di esso qualora i genitori lo richiedano, al fine di coadiuvare il giudice per interventi sul nucleo familiare. L’articolo qualifica quindi la c.d. “coordinazione genitoriale”, o l’ampia congerie degli interventi clinico – terapeutici e mediatori, in senso intra-processuale, secondo una sovrapposizione tra amministrazione e giurisdizione, attribuendo efficacia potenzialmente autoritativa ad interventi e terapie progettate e proposte sulla base di accertamenti effettuati per finalità di benessere. Il giudice agisce sotto l’egida del principio di legalità ed è chiamato a tutelare i diritti delle persone coinvolte nella vicenda processuale, agendo all’interno dei binari che la caratterizzano.

Gli interventi che ricadono all’interno del principio di beneficità, rivolti alla composizione del conflitto, sono quindi confluenti, ma nello stesso tempo devono necessariamente rimanere separati. La cura e la protezione richiedono il consenso informato delle persone interessate, chiamano in causa dati sensibili e si differenziano dalla tutela giurisdizionale dei diritti, collocandosi strettamente in sede extragiudiziale e risultando altresì esclusi dalla stessa, come da recenti pronunce della Suprema Corte. Le disposizioni in questione sono invece coerenti con una prospettiva che sembra riguardare più il vecchio concetto di “potestà” (intesa come “potere” di interesse pubblicistico, esercitabile da altri soggetti qualora si ritenga che i genitori non lo svolgano adeguatamente) piuttosto che quello (introdotto nel 2013) di “responsabilità”, connesso al dovere di rispettare i diritti e l’interesse dei figli e di rispondere degli eventuali inadempimenti.

Non risulta invece possibile assicurare l’effettività della tutela dei diritti umani senza rispettare i caratteri specifici delle due funzioni: quella giurisdizionale e quella di cura e protezione. Sono inoltre diverse le competenze richieste per agire in qualità di CTU o di soggetto che svolge interventi clinici in sede mediatoria o socio – assistenziale o terapeutica, e le stesse rispondono a ben differenti universi normativi ed etico – applicativi. Il primo, psicologo, neuropsichiatra infantile o psichiatra dotato di competenze giuridiche, opera in una prospettiva valutativa, considerando gli interessi dei figli ed i comportamenti dei genitori ad essi eventualmente contrari, determinando profili di incapacità.

Le altre funzioni sono diverse, e possono essere svolta anche da figure di differente area professionale. Non si comprendono quindi i presupposti e le ragioni di un’assimilazione tra le due figure, costituendosi invece come feconda prospettiva quella per cui dovrebbero essere incoraggiate e facilitate le vie extragiudiziali di composizione del conflitto, coerenti con il diritto del figlio (secondo l’art. 13 della Convenzione di Strasburgo) di non essere coinvolto nel conflitto giudiziale tra i genitori.

 

L’art. 473 bis.25 prevede che il CTU nella relazione indichi specifiche proposte d’intervento a sostegno del nucleo familiare e del minore. Per quanto riguarda gli adulti, va chiarito che il presupposto indefettibile di ogni trattamento sanitario risiede nella scelta, libera e consapevole – salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere – della persona che a quel trattamento si sottopone. L’attuale normativa considera la “persona” non più destinataria di prestazioni etero-determinate, ma soggetto attivo e partecipe dei processi decisionali che la riguardano.

Appare ormai superata la visione del professionista sanitario come depositario e detentore di una “potestà” di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto tra il paziente e la figura sanitaria (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) in termini di “alleanza terapeutica”, che veda entrambi i protagonisti impegnati a collaborare per l’attuazione del diritto alla salute. Il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione che ne tutela e promuove i diritti fondamentali e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che «la libertà personale è inviolabile», e che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».

La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi dell’intervento psicologico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione. Il 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la Legge n. 219/17 in cui nell’art. 1 trova sostanza il concetto di consenso informato in ambito sanitario.

Numerose norme internazionali, del resto, prevedono la necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti sanitari. Va inoltre rilevato come non esista alcuna evidenza di efficacia di interventi con finalità trattamentali effettuati senza una specifica motivazione nel soggetto che vi si sottopone. I best interests del figlio minore non possono quindi essere invocati per giustificarne l’attuazione. In assenza di una codifica di questi interventi, non esistono nemmeno strumenti per valutarne l’efficacia; ciò che conta sono i risultati (in termini di comportamenti) oggettivamente apprezzabili e valutabili e che il giudice è chiamato a valutare, a prescindere dai «percorsi» attraverso i quali una persona è giunto ad adottarli o a non adottarli.

 

Le norme introdotte dal suddetto decreto legislativo stabiliscono che l’ascolto del minore deve essere effettuato direttamente dal giudice, con particolare riferimento ai casi di violenza domestica ed a quelli in cui il figlio manifesti un rifiuto verso un genitore onde accertarne le cause. Va rilevato come in questi casi l’ascolto del minore, originariamente concepito come esercizio del suo diritto di esprimere la propria opinione e di ricevere le informazioni pertinenti riguardanti la situazione in cui è coinvolto, travalica questa funzione e diviene un atto assimilabile alla raccolta di informazioni testimoniali su fatti storici.

Diviene quindi necessario, analogamente a quanto avviene in ambito penale secondo le disposizioni dell’art. 196 c.p.p., valutare la “capacità di discernimento” del minore oggetto di ascolto, il cui accertamento viene dal legislatore considerato necessario perché il minore possa esercitare il diritto in questione. La capacità di discernimento nasce nei testi delle Convenzioni Internazionali come punto di riferimento di alcune libertà fondamentali e fa la sua comparsa nel nostro sistema attraverso l’art. 7 della Legge sull’adozione, cui fanno eco le numerose disposizioni che ripetono la stessa formula. Molti dubitano si tratti di un concetto giuridico, propendendo per una sua valenza psicologica. C’è chi ritiene la si debba equiparare alla capacità di intendere e di volere che in positivo trova nell’art. 1389 c.c. l’unico appiglio normativo.

Infine, c’è chi l’accosta più verosimilmente alla maturità psico-fisica di cui all’art. 84 comma 2 c.c. È dotato di discernimento colui il quale sia in grado di comprendere ciò che è meglio per se stesso, di avere opinioni ed aspirazioni, ma principalmente di operare delle scelte autonome, ovvero svincolate dall’influenza o dal condizionamento dell’altrui volontà. La capacità di discernimento di un minore corrisponde alla gradualità di sviluppo della persona, da valutare in concreto ed in relazione alle singole fattispecie.  Ascolto e capacità di discernimento vanno quindi di pari passo, onde non conferire al fanciullo, un potere decisionale non congruo con il suo grado di maturità.

La capacità va valutata in concreto, tenendo conto degli inevitabili condizionamenti esterni; non per escludere l’ascolto, ma per acquisire maggiore consapevolezza e migliori strumenti nell’accogliere le opinioni ed i sentimenti del minore. La sua opinione deve quindi essere considerata anche in riferimento al contesto relazionale e comunicativo in cui si è sviluppata, ovvero alle suggestioni, ai condizionamenti espliciti o impliciti ed ai conflitti di lealtà in grado di influenzarla. L’ascolto del minore infra-quattordicenne dovrebbe quindi essere sempre accompagnato da una valutazione della sua capacità di discernimento, affidata al CTU.

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